INTERVISTA A FERDINANDO PEROSA, EX MARTININ.
Ho fatto l’incisore dai 14 anni fino ai 54.
Sì, l’ho fatto sempre con entusiasmo. Anche se ho avuto la possibilità di cambiare non l’ho mai fatto, perché ne ero molto contento.
Credo che a quell’età lì fosse difficile avere sogni nel cassetto. Il collegio era una cosa un po’ complessa.
Avete colto qualcosa del collegio? Avete guardato un po’ di curriculum? Cosa avete trovato di bello o meno bello?
(Abbiamo trovato dei questionari dove facevano delle domande ai ragazzi, per esempio se gli piacesse stare all’interno)
È tutto scritto qua: io ho portato il mio curriculum. Quando l’ho letto, vi dico la verità, sette o otto anni fa, sono rimasto un po’ male, ecco. Sapevo di essere un po’ vivace, ma qui dice un po’ troppo. Addirittura dice “irrecuperabile”.
Io ho perso il papà a due anni. Sono cresciuto senza genitori: la mamma è andata a lavorare e io sono cresciuto con gli zii in Veneto, in campagna. C’era poco, poi sono stato catapultato in istituto e lì comincia a sconvolgersi la vita perché in orfanotrofio avete capito che si entrava solo se si era milanese, l’avete colto? Ecco, io venivo dal Veneto… immaginatevi: in collegio si parlava solo dialetto milanese, era una regola perché tra bambini si parlava quello, e io sapevo solo il veneto.
Ho impiegato un po’ ad entrare in contatto con qualcuno della mia età, forse un anno o due e lì ho avuto un po’ di sofferenza. Ti difendi come puoi, ma ti attaccano tutti.
Leggo (si riferisce al suo fascicolo) che ogni anno ci chiedevano cosa sognassimo, e io ho detto tante fesserie e sono tutte scritte. Una volta volevo fare il sarto… a undici anni chi vuole fare il sarto? Poi ho scoperto che ero appassionato di disegno e avrei potuto trovare, come ho trovato, lo sviluppo che mi andava bene, per le mie caratteristiche. Eccellevo in disegno, ho fatto scuole serali di disegno e ho trovato un’azienda dove serviva uno che sapesse disegnare, e lì ho fatto tutto il mio percorso dai 14 anni ai 54.
Io sono entrato il 30 ottobre del 1945, appena dopo la fine della seconda guerra mondiale, e uscito il 6 marzo del 1954. Il primo anno l’ho fatto in montagna in una colonia a Piano Rancio che esiste ancora ma adesso è abbandonata.
Molti intendono che l’incisore è quello che incide. C’è chi fa i cliché e poi vengono stampati. Io facevo l’incisore su acciaio: stampi per monete e medaglie, in genere. Ho portato un po’ di esempi, mi porto un po’ di pesi avanti e indietro. Il disegno è importantissimo perché è la prima cosa: tutto quello che vedete qui sono tutti lavori fatti a mano. Ho realizzato anche francobolli che realizzavamo in oro: ci davano il francobollo di carta che dovevamo copiare a mano e a rovescio, perché quando fai lo stampo, per avere una cosa positiva, la devi fare negativa. Questi lavori erano fatti tutti dall’incisore, copiati sullo stampo d’acciaio che incidevamo con attrezzi appositi. Dovevi essere portato nel disegno, se no non era il tuo lavoro.
Il processo era questo: l’azienda committente si rivolge ad un artista di suo gradimento, l’artista esegue il modello, poi dal modello si va dall’azienda che fa le monete, le medaglie, le targhette e lì l’incisore deve fare in modo che il modello diventi uno stampo che può stampare. A volte di uno stesso lavoro si facevano più dimensioni, a seconda del lavoro. L’incisore doveva rifinire la riproduzione realizzata dalla macchina, che si chiama pantografo, la macchina impiegava giorni, ma non ti dava il lavoro finito ma un lavoro grezzo e l’incisore doveva fare in modo che il lavoro venisse ad essere simile al modello: questo era il lavoro dell’incisore.
L’azienda in cui ho lavorato quarant’anni aveva centottant’anni di vita, adesso sta morendo, non c’è quasi più. La nostra azienda aveva un archivio di stampi che era l’eccellenza. I più grossi Incisori della Zecca d’Italia sono nati da lì. I concorrenti nostri erano incisori che si mettevano in proprio, era la fucina di un lavoro di una certa qualità.
Come tutti i lavori artigianali, si imparava a bottega del maestro. A volte trovate dei dipinti importanti, si dice di Raffaello: poi scopri che Raffaello magari ha fatto il progetto, mentre gli allievi l’hanno sviluppato.
Io sono andato via a quattordici anni, avevo la passione del disegno ma il lavoro non sapevo neanche cosa fosse. Cominci a scopare per terra, guardi uno, guardi l’altro, poi, col tempo, ti fanno fare qualcosina, ma a essere un po’ indipendenti, impieghi tre o quattro anni. A fare qualcosina anche di lieve, di leggero, ci vuole un po’ e lo devi rubare a quello che vedi dagli altri, come tutte le cose artistiche, ma nel mio campo se non hai la base del disegno non riuscirai. Io già dalle elementari ero portato al disegno, poi ho fatto i corsi serali di Brera. Ti devi affinare dove serve, nella scuola apposita.
Da noi, in collegio, esisteva il laboratorio di disegno serale e meccanico, ovvero che ti davano un pezzo di acciaio e tu imparavi a limare, non è che imparassi tanto di più. Un beneficio che ho avuto io è approfondire il disegno meccanico, non era niente di particolare. Poi quando sono andato via a quattordici anni, lavoravo fino alle 17:45, dalle 18 alle 20 andavo a Brera e dalle 20 alle 22 al Castello dove imparavo a fare le medaglie.
I laboratori interni erano disegno meccanico, musica per chi aveva le attitudini. Il lavoro principalmente si apprendeva fuori dal collegio. Noi, all’età di quattordici anni, venivamo come regola avviati al lavoro. All’interno non ho mai visto scuole di mestieri. In teoria avremmo dovuto, a quattordici anni, aver finito il terzo avviamento. Noi avevamo l’avviamento al lavoro, dentro. Io non sono riuscito a finirlo perché non ero tanto bravo e ho ripetuto. Prima mi dicevano che non capivo niente, che ero un po’ tosto, tardivo, poi hanno scoperto, nel primo e secondo avviamento, che ero portato anche nello studio, ma a quattordici anni mi hanno comunque mandato a lavorare e non ho proseguito negli studi, se non il disegno. Io, se devo essere sincero, non sapevo niente del mondo del lavoro: vivevo in orfanotrofio, per me era un altro mondo, l’esterno. Venendo dal Veneto, essendo cresciuto in istituto, non avevo casa a Milano, quelle volte che non ero in castigo e potevo uscire, sapevo poco. Ho scelto quello che, secondo le mie attitudini, poteva andare bene. Quando sono arrivato in azienda il datore di lavoro mi ha chiesto “Ma lei pensa di imparare il lavoro e poi sta qui, o va via?”, e io ho risposto “Sono venuto qua per lavorare, ho bisogno di stare qui” io avrei dovuto sostituire Leonardo Del Vecchio perché lui aveva quasi due anni in più di me, a sedici anni è andato in Trentino: era un incisore che andava a gestire un’azienda di medaglie. Questo era sveglio e se n’è andato in Trentino per crescere un po’.
8) Ha mai assistito a incidenti sul lavoro?
Devo ammettere di sì. Io ho visto tanti stampatori e tranciatori che erano quelli che comprimevano rischiare e qualcuno con i moncherini c’era. Una volta non si badava molto alla sicurezza sul lavoro, e gli incidenti capitavano soprattutto di ser, quando si era più stanchi. Una volta si inizia a lavorare alle nove e si finiva alle sei. Di lavoro ce n’era tanto ora non ce n’è più. Io ho lavorato durante il boom degli anni 60. Facevo anche attività sindacale e ho combattuto tanto, nell’ azienda dove il 70% era composto da donne e il 30% da uomini. Io ero in commissione interna e la nostra azienda andava molto bene. I sindacati facevano delle proposte dopo le assemblee con gli operai dove si valutava e si riteneva le domande opportune da fare. Il sindacato faceva capire di non trattare. Cioè se le richieste presentate non erano cosi spropositate erano sostenibili così se qualche azienda cominciava a trattare, il fronte del muro del “NO” si sgretola un po’. Io ho imparato che a discutere con i padroni si cresce. acquisite una capacità di esprimervi perché è utile. Durante i consigli mi arrabbiavo perché lottavo per la parità di sessi nel mondo del lavoro. Riuscivo a convincere il padrone che mi diceva: si lei ha ragione, ma si ricordi che il capo sono io. Per me era una vittoria.
Io nel 1960 avevo imparato bene il lavoro, me ne sono andato via sei mesi, a lavorare in un giornale, qui lavoravo solo il pomeriggio e guadagnavo il doppio. Il datore di lavoro (disegnatore) mi diceva che se volevo potevo prendere lavoro al mattino dato che ero libero. A furia di insistere, abbiamo trattato in termini economici e da 50000 lire sono passato a guadagnarne 100000, non solo io ma tutto il reparto. Per questo è sempre bene discutere.
9) Ha avuto qualche mancanza?
In istituto si era bambini, era tutta una mancanza qui. Io lanciavo sassi a tutti, lanciavo boccettini pieni di inchiostro, se leggete qui in fondo ci sono le punizioni. Quando c’ero io la cella non esisteva.
Io ed un mio amico abbiamo preso un educatore per la testa il quale stava picchiando con i piedi un bambino e l’abbiamo messo contro al muro. Non ci hanno espulso.
Molte mancanze invece le ho avute per essere rientrato tardi a causa dei mezzi. Se non avevo una giustificazione mi davano la mancanza privandomi di una o due uscite.
10) Lei ha visto il museo?
Si, io c’ero quando lo hanno inaugurato. Sono iscritto all’associazione dei Martinitt dal 1954, sono il più vecchio di tutti.
Ho avuto un anno sconvolgente. Uscendo nel 1954, non avevo casa lì, mia mamma faceva la cameriera e mi sono catapultato in un mondo nuovo. Non sono riuscito a confrontarmi con gli altri ragazzi per un anno.
11) Ha avuto fratelli o sorelle nella stessa situazione?
No
Io sono figlio unico di madre vedova e ho scoperto che sono orfano di guerra ma mai riconosciuto, mia mamma ha detto che aveva fatto domanda ma io non ho trovato tracce. Poi nel 1966 ha rifatto domanda ed è stata riconosciuta vedova di guerra; io 10-12 anni fa dico “ma perché non devo essere anche io orfano di guerra?” e sono dovuto andare in corso Monforte a fare la domanda e la prima cosa che ti chiedono è “Perché fa solo ora la domanda?” perché se l’avessi chiesto prima avrei potuto pretendere dei diritti che non mi hanno mai concesso.
12) Ha mai parlato della sua esperienza in orfanotrofio ai suoi nipoti?
Raramente i miei nipoti mi fanno delle domande in merito, perché ritengo che oggi si perda un po’ il dialogo con la famiglia. Mio nipote però l’altra domenica mi ha chiesto di mostragli una foto di quando giocavo nella squadra di calcio dei Martinitt, così gliene ho fatte vedere qualcuna.
13) Qual è la punizione più grave che ha subito?
Qualche scappellotto che meritavo, perché non posso dirvi che fossi un angioletto. È capitato mi prendessi a calci con qualcuno, perché inizialmente venivo preso in giro perché venivo dal veneto e non capivo il milanese. Altre punizioni, al di fuori di quelle corporali, erano i divieti di uscire.
14) Nell’orfanotrofio avevate inservienti che cucinavano e pulivano per voi?
Eravamo noi gli inservienti di noi stessi, a parte in cucina che era provvista di inservienti e cuochi.
15) Com’era la scuola?
Eravamo in classi di 40/45 persone, quindi per gli educatori era molto difficile starci dietro, non è come adesso che le classi sono molto ridotte di numero ed è più semplice gestirle. Molti degli educatori che accudivano noi, era gente che studiava e che si pagava gli studi lavorando così.
16) Aveva un tutore?
Io avevo mia mamma, era lei la mia tutrice che si è fatta carico di tutto.
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